lunedì 9 settembre 2013

LA FIGURA DI CRISTO








Gesù è al vertice delle aspirazioni umane, è il termine delle nostre speranze e delle nostre preghiere, è il punto focale dei desideri della storia e della civiltà, è cioè il Messia, il centro dell’umanità, Colui che dà un senso agli avvenimenti umani, Colui che dà un valore alle azioni umane, Colui che forma la gioia e la pienezza dei desideri di tutti i cuori, il vero uomo, il tipo di perfezione, di bellezza, di santità, posto da Dio per impersonare il vero modello, il vero concetto di uomo, il fratello di tutti, l’amico insostituibile, l’unico degno d’ogni fiducia e d’ogni amore: è il Cristo-uomo. E nello stesso tempo Gesù è alla sorgente d’ogni nostra vera fortuna, è la luce per cui la stanza del mondo prende proporzioni, forma; bellezza ed ombra; è la parola che tutto definisce, tutto spiega, tutto classifica, tutto redime; è il principio della nostra vita spirituale e morale; dice che cosa si deve fare e dà la forza, la grazia, per farlo; riverbera la sua immagine, anzi la sua presenza in ogni anima che si fa specchio per accogliere il suo raggio di verità e di vita, che cioè crede in Lui e accoglie il suo contatto sacramentale; è il Cristo-Dio, il Maestro, il Salvatore, la Vita.

A meditare ancora un poi possiamo scorgere l’universalità di Cristo nelle parole citate del Vangelo, cioè Gesù è per tutti; per ogni singola anima, per ciascuno di noi; e per ogni singolo popolo: ogni stirpe, ogni nazione, ogni civiltà lo può raggiungere, lo può avere; anzi lo deve raggiungere, lo deve avere; Gesu è per tutti. E a spingere in questa visione l’occhio più a fondo arriviamo alla dottrina di San Paolo, ch’è poi la teologia della Chiesa: Cristo è necessario, senza di Lui non si può fare, senza di Lui non si può vivere; e inoltre: Cristo è sufficiente, basta Lui alla nostra guida suprema, alla nostra sapienza ultima, alla nostra salvezza eterna. Cristo è la vera e sola religione, Cristo è la sicura rivelazione di Dio, Cristo è il solo ponte fra noi e l’oceano di vita ch’è la Divinità, la Trinità santissima, per cui, volere o no, siamo stati creati e a cui siamo destinati.
Cioè: la meditazione su Gesù, il Bambino di Betlem, l’operaio di Nazareth, il Maestro di Palestina, il Crocifisso del Calvario, il Risorto di Pasqua, si apre davanti come uno sconfinato panorama di verità vitali e stupende. Si apre. Attenti, Figli carissimi. Si apre; come si apre? da sé? Il racconto evangelico, a cui ci riferiamo, non ce lo dice. Anzi ci lascia capire che nessuno, salvo il vecchio, umile profeta, che dà l’annuncio della apparizione di Cristo nel Tempio di Dio, s’era accorto di Lui. È questo un aspetto del Vangelo estremamente interessante e misterioso: Gesù si rivela e si nasconde allo stesso tempo: coloro che lo vedono, non vedono chi Lui è; ricordate: «videntes non videt"   Mt  13, 13); ci si dovrà pensare, tremando e pregando. Ma ciò che a Noi preme osservare in questo momento è il fatto che due fattori, secondo il Vangelo, entrano in gioco per fare dell’apparizione fisica di Gesù una rivelazione del suo carattere messianico e divino; uno, lo Spirito Santo, fattore invisibile, ma primo e superiore agente, il quale ispira al buon Simeone la scoperta del Salvatore presente; e l’altro, Simeone stesso, che si fa profeta, si fa voce, si fa maestro, che parla per annunciare la realtà della rivelazione presente e nascosta.
L’apertura della verità religiosa alle nostre anime esige questi due coefficienti: lo Spirito Santo, la grazia di Dio, cioè, senza la quale non possiamo giungere alla fede e alla salvezza; e il magistero, la voce esterna, di chi è incaricato di parlare in nome di Dio, dell’apostolo, della Chiesa maestra, noi diciamo, sicuri di continuare e di realizzare il disegno evangelico, l’economia della rivelazione. Fides ex auditu, la fede nasce dall’ascoltare (Rm 10, 17).
Ebbene: abbiate, una volta di più, questa letizia e questa certezza, che dalle sue labbra, povere labbra di uomo mortale ed ignaro, si ripete la grande profezia che ammaestra, illumina e salva il mondo, la profezia di Simeone e di Pietro: Gesù è il Cristo, è il Salvatore atteso e venuto, è il Figlio del Dio vivente.
Chi è Cristo, in Se stesso? Chi è Cristo per me? La fortuna che noi abbiamo avuta, di ricevere un’istruzione religiosa fondamentale e di sentircela ripetere partecipando ai riti domenicali, ovvero ascoltando gli echi della parola «cristiana» provenienti dalla conversazione nella vita vissuta, ci soccorre certamente con precise risposte; e beati noi se la memoria ce le conserva in termini fedeli. Ma in realtà queste risposte si inceppano talora sulle nostre labbra e nell’interno stesso dei nostri animi, non tanto per la difficoltà di trovare le parole esatte di tali risposte, quanto perché le realtà che esse devono esprimere si sono fatte così grandi e così complesse da diventare forse nebulose o forse ineffabili. Quasi si preferirebbe che quelle domande non sorgessero dentro, o fuori di noi, e che noi potessimo coprirci del nome cristiano comodamente, senza sperimentarne né la stringenza, né l’ebbrezza (Cfr. At  26, 28; 1 Petr. 4, 16).
Chi è Cristo? Chi è Egli per me? Quando riflettiamo su queste semplici, ma formidabili ricorrenti questioni ci accorgiamo d’essere tentati di scivolare in un vuoto nominalismo cristiano e di eludere la logica drammatica del realismo cristiano. Se Cristo è Colui all’infuori del quale non v’è soluzione alle questioni capitali della nostra esistenza, se sono vere, se sono attuali le parole «piene di Spirito Santo» dell’Apostolo Pietro nello scontro del primo processo intentato alla Sua Predicazione messianica: «. . . Questo Gesù è la pietra che, scartata dai costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che noi possiamo essere salvati» (At  4 , 11-12), allora la nostra mentalità è scossa e forse sconvolta; non possiamo più considerare il nome di Gesù Cristo come un appellativo puro e semplice che si è insinuato nel linguaggio convenzionale della nostra vita, ma la sua presenza, nella statura incalcolabile della sua grandezza, si drizza davanti a noi; ecco, Egli è l’alfa e l’omega, « il principio e il fine » d’ogni cosa (Cfr. Ap. 1, 8), il cardine dell’ordine cosmico, che ci obbliga a rivedere le dimensioni della nostra filosofia, della nostra concezione del mondo, della storia della nostra personale esistenza. Ci sentiamo annientati, come gli apostoli sul monte della trasfigurazione (Mt  17, 6), e non oseremmo più rialzare lo sguardo, vogliamo dire inoltrarci in un’esperienza spirituale e morale che si fa religiosa, cioè ci dà «l’estasi e il terrore» d’una Verità vivente a noi del tutto  proporzionata, se non fosse che una sua voce incantevole e vicina ci ridestasse dalla confusione del nostro paralizzante stupore, anzi un suo tocco prodigioso («. . . .li toccò», dice il Vangelo), ci facesse gustare l’ineffabile momento, diventato umanissimo: «Su, e non abbiate timore!» (Mt  17, 7), e ci ricordasse altre sue parole rivelatrici che ci assicurano essere riservate le sue divine confidenze a noi, se piccoli ed umili (Cfr. Ibid. 11, 25). L’umiltà di Dio fatto uomo ci confonde come la sua grandezza, ma non solo rende possibile il colloquio, ma lo offre, lo impone (Cfr. S. AUGUSTINI Sermo 30: PL 38, 191; De Catech. Rud., 4, 7-8: PL 40, 313-315; Confessiones, 7, 18, 24: PL 32, 745; Confessiones, 7, 20-26: PL 32, 747).
Siamo in un’atmosfera nuova, inverosimile: è quella del rapporto della fede, che non annulla il rapporto della ragione, ma lo esalta, e fortifica così quello religioso da infondergli una certezza più preziosa della vita stessa, e ancora così avida di sapere e di progredire da rendere insonne la sua ricerca e la sua contemplazione. Alla conclusione della nostra stagione liturgica esaminiamo il grado della nostra conoscenza di Cristo. Non è offensivo il nostro rilievo: noi lo troveremo forse deficiente. E così per noi tutti, se qualche cosa abbiamo afferrato della divina conversazione che la nostra elezione cristiana ci consente. Riassumiamo i nostri pensieri in un proposito finale, in un desiderio che prelude al suo compimento oltre il tempo; è quello dei Greci che nel giorno dell’ingresso messianico di Cristo in Gerusalemme così si espressero: «vogliamo vedere Gesù» (Gv  12, 21).





















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