«La vendetta si serve fredda...» sibilano i falchi plaudendo alla scelta, che sembrava per il momento congelata, di lanciare Forza Italia e, di fatto, defenestrare il segretario, il leader di quegli Innovatori che ancora quattro giorni fa al Senato si contavano firmando una lettera a difesa del governo che era un modo per dire che i numeri per la sopravvivenza dell’esecutivo erano dalla loro parte e Berlusconi non aveva più armi. L’ex premier ha voluto dimostrare - a loro ma soprattutto a tutti i suoi avversari o possibili interlocutori, dai magistrati al Pd per arrivare al capo dello Stato - che le armi ce le ha ancora, o almeno ha la più importante: il partito. Quella Forza Italia della quale ritorna presidente e dominus assoluto, marginalizzando i governativi che adesso non escludono la scissione.
La decisione era nell’aria, ma veniva rimandata di giorno in giorno. Ancora mercoledì sera, raccontano, Berlusconi appariva incerto: la paura di trovarsi un partito spaccato nel momento più difficile della sua vita politica lo portava a temporeggiare, sperando che i lealisti alla fine avrebbero accettato di buon grado uno slittamento almeno fino al voto sulla decadenza, e che gli innovatori gli sarebbero stati vicini indurendo la linea su governo e giustizia.
Ma i lealisti erano ormai pronti a sferrare l’attacco. Glielo ha detto a brutto muso Raffaele Fitto: se cedi anche stavolta, la guerra la facciamo noi (e l’avvisaglia è stata l’imboscata sul voto per le riforme al Senato, mercoledì) perché «se altri mostrano la pistola per minacciarti, noi lo facciamo per salvarti». Quel Fitto che dopo il voto di fiducia ha riorganizzato le truppe sbandanti di falchi e non solo offrendo all’ex premier una sponda perché il Pdl non passasse armi e bagagli nelle mani di Alfano.
Nell’ombra Verdini ha lavorato (con l’aiuto degli avvocati) anche alla formula tecnica per il passaggio: nell’Ufficio di presidenza di oggi saranno solo 24 gli aventi diritto al voto, quelli originari del primo Pdl, che comprendono molti ministri del governo del 2008 (Carfagna, Fitto, Galan, Gelmini, Matteoli, Prestigiacomo, Bondi, Rotondi, Vito, Scajola, Sacconi, Brunetta e lo stesso Alfano) quasi tutti oggi lealisti. Non ci saranno invece - schiaffo umiliante - gli attuali ministri e nemmeno Cicchitto (non più capogruppo), mentre dell’area governativa saranno presenti Formigoni e Giovanardi, con Schifani più defilato ma sempre più vicino ad Alfano.
Al voto, non dovrebbero quindi esserci sorprese, e nemmeno dal punto di vista legale si prevedono guerre. Perché Berlusconi ormai ha deciso, dopo l’ultimo sfogo: «Mi hanno lasciato tutti solo mentre le procure mi sparano contro, ma io reagirò, farò vedere che chi comanda sono ancora io. E che sono pronto a tutto». E perché i governativi non hanno ancora deciso come reagire. Alfano, infuriato e sconvolto, era al Ppe, a Bruxelles, e non si aspettava una mossa così repentina, che lo ha ferito. Ora è al bivio: rompere, come gli consigliano i più duri dei suoi - da Cicchitto alla Lorenzin a Quagliariello,per i quali la decisione «è già presa, bisogna solo stabilire le modalità, non è un parricidio ma un infanticidio» - e costruire un partito centrista con quella parte del Pdl che si staccherà e Mauro e Casini. Oppure inghiottire l’amarissimo boccone e restare, aspettando che la bufera passi perché, come gli suggeriscono altri, «il dopo Berlusconi è già iniziato, e tu puoi giocartelo contro i falchi». È la decisione più difficile per Alfano, in ballo ci sono storie politiche, e la sorte del governo, sempre più in bilico. Ma dalla drammatica cena notturna dei governativi a emergere era una sola certezza: «Comunque finisca è una sconfitta per tutti. Per Berlusconi e per noi».
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