LA MORTE DI FEDERICO ALDROVANDI - Sabato 24 settembre 2005 per Federico Aldrovandi, un diciottenne di Ferrara, è un giorno come tanti altri. Primogenito di Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, Federico vive con i genitori e il fratello minore Stefano. Quella sera il ragazzo ha in programma una trasferta a Bologna per assistere a un concerto al Link, uno dei locali più noti della città. Dopo il lavoro in una pizzeria da asporto, Federico incontra gli amici e insieme si dirigono verso il capoluogo emiliano. Il concerto però viene annullato. I ragazzi decidono comunque di trascorrere la serata a ballare e bere all’interno del locale.
Quel che è certo è che Federico assume anche della droga, Lsd, popper, hashish e forse altro. Verso le 5 del mattino il gruppo di amici fa rientro a Ferrara. Federico si fa lasciare nei pressi di via Ippodromo, non lontano da casa. Ha ancora voglia di stare in giro, probabilmente per riprendersi un po’ dallo sballo. Prova a contattare sul cellulare alcuni suoi amici, ma non riceve risposta. Alle 5.47 la sala operativa della Questura viene allertata da parte di alcuni residenti di via Ippodromo, che riferiscono la presenza di un ragazzo che urla frasi sconnesse e tira calci qua e là. Sul posto giunge una volante della polizia con a bordo due poliziotti i quali, non riuscendo a calmare il giovane, chiamano prima un'altra volante e poi una pattuglia dei carabinieri.
Alle 6.04 viene chiamata anche un’ambulanza del 118. Tra il ragazzo e le forze dell’ordine c’è una colluttazione, al termine della quale i poliziotti hanno la meglio: riescono a immobilizzare Federico in posizione prona e gli mettono le manette ai polsi. Federico a questo punto è fermo, immobile, sembra svenuto. Quando arriva l’ambulanza, per Federico non c’è più nulla da fare, è morto.
LE INDAGINI E LE PERIZIE
- La morte di Federico Aldrovandi, in un primo momento, sembra a tutti
gli effetti collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti. Alcuni
mesi più tardi, nel gennaio 2006, la mamma di Federico apre un blog
che in poco tempo diventa uno dei più cliccati in Italia. In esso
vengono evidenziati alcuni elementi che, a detta della famiglia
Aldrovandi, non tornano, e che sono legati al comportamento dei
poliziotti intervenuti per placare il ragazzo.
La perizia
tossicologica, infatti, non sembra essere coerente con la versione
dell’overdose e sul corpo del ragazzo ci sono segni evidenti di percosse
che hanno portato anche alla rottura di due manganelli. C’è poi una
testimone che dichiara di aver sentito Federico urlare “aiuto!” e
“basta!” e di averlo visto prima picchiato e poi a terra mentre un
poliziotto gli premeva un ginocchio sulla schiena. Le indagini vengono
riaperte e viene disposta una serie di perizie allo scopo di accertare
l’accaduto.
La perizia
medico-legale del professor Stefano Malaguti, consulente della procura
di Ferrara, conferma che Federico sarebbe morto a causa all’assunzione
combinata di ketamina, eroina e alcol: un mix diabolico che avrebbe
pregiudicato lo stato psicofisico del ragazzo provocando un
insufficienza respiratoria e quindi un arresto cardiocircolatorio.
A queste
conclusioni la famiglia Aldrovandi si oppone con la consulenza dei
professori Antonio Zanzi e Giorgio Gualandri, secondo i quali la causa
del decesso di Federico sarebbe un’asfissia posturale, dovuta al fatto
che il ragazzo sarebbe stato costretto per diversi minuti in posizione
prona con le manette ai polsi. In quel frangente di forte stress e
agitazione psico-motoria, il fisico di Federico avrebbe avuto bisogno di
un maggior apporto di ossigeno, che al contrario è stato carente.
Nel marzo del
2006 vengono iscritti sul registro degli indagati i 4 poliziotti
intervenuti in via Ippodromo la mattina in cui è morto Federico
Aldrovandi. Nel frattempo la procura chiede al professor Francesco Maria
Avato una consulenza supplementare, i cui risultati ribadiscono il
ruolo predominante del mix di droga e alcool nella morte di Federico.
Ma non è ancora
finita: il pm Nicola Proto chiede che venga eseguita in incidente
probatorio una superperizia, medico-legale e tossicologica, affidata ai
professori Roberto Testi ed Emanuele Bignamini. Il risultato di questo
nuovo accertamento stabilisce che la morte di Aldrovandi è stata
provocata da una sindrome da ipereccitazione chiamata “Excited Syndrome
Delirium”. In sostanza, Federico non sarebbe morto né a causa della
droga assunta né per le percosse dei poliziotti, ma per una mancanza
d’aria dovuta al suo stato di agitazione e stress che avrebbe provocato
un crollo delle funzioni cardiache e respiratorie dell’organismo. Per il
pm è chiaro: l’agitazione di Federico fu causata dalle percosse subite
dai poliziotti e dalla costrizione in posizione prona. I quattro
poliziotti vengono quindi rinviati a giudizio con l’accusa di “eccesso
colposo”.
LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
- Il 6 luglio 2009 i poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo
Pontani e Luca Pollastri vengono condannati a 3 anni e 6 mesi di
reclusione. Per i giudici i quattro agenti, durante un normale controllo
di ordine pubblico, commisero il reato di eccesso colposo causando la
morte di Federico Aldrovandi. Si trattò, dunque, di omicidio colposo.
Nella sentenza il giudice Francesco Caruso afferma che la morte di
Federico fu la “conseguenza della violenta colluttazione con i quattro
agenti, armati di manganelli, decisi a immobilizzarlo e ad arrestarlo a
ogni costo, per fargli scontare le conseguenze di una precedente fase di
conflitto, con reciproci atti di violenza, nel corso della quale venne
danneggiata l’auto della pattuglia Alfa 2”.
In quell’alba
maledetta, secondo la Corte, Federico era una persona bisognosa di aiuto
sanitario, non un soggetto pericoloso che andava a tutti i costi
arrestato. Ma c’è di più: il giudice Caruso ipotizza anche che lo stato
di agitazione del ragazzo, descritto dai testimoni, fosse dovuto proprio
all’intervento della prima volante, che evidentemente si sarebbe già
trovata nei pressi di via Ippodromo al momento dell’arrivo di Federico,
quindi prima della richiesta di intervento da parte degli abitanti della
zona.
ALDROVANDI-BIS E ALDROVANDI-TER
- Nel maggio del 2007 viene aperta un’inchiesta-bis sulla morte di
Federico Aldrovandi, volta ad accertare perché il brogliaccio delle
chiamate al 113 del 25 settembre 2005 fu corretto nello spazio in cui
venivano riportati i dati dell’intervento dei quattro poliziotti in via
Ippodromo e perché uno dei fogli non venne trasmesso alla Procura. Il
dubbio, infatti, è che al momento della richiesta di intervento da parte
degli abitanti di via Ippodromo, una prima volante fosse già sul posto e
avesse già avviato una colluttazione con il ragazzo.
Nell’ambito di
questa inchiesta vengono rinviati a giudizio 4 poliziotti: Paolo Marino,
all’epoca dirigente dell’Ufficio Volanti, Marco Pirani, all’epoca
braccio destro del primo pm che si occupò delle indagini, Marcello
Bulgarelli, responsabile della centrale operativa del 113 e Luca Casoni,
ispettore capo delle volanti in servizio quella mattina. Le accuse nei
loro confronti sono, a vario titolo, falso, favoreggiamento e omissione
di atti d’ufficio. Avrebbero mentito e cercato di manomettere dati allo
scopo di ritardare le indagini e aiutare i loro colleghi. Tre di loro
verranno condannati a pene che vanno da otto mesi a un anno di
reclusione. Luca Casoni, l’unico a non aver chiesto il rito abbreviato,
verrà assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non
sussiste” e dai reati di omissione d’atti d’ufficio e di favoreggiamento
perché “il fatto non costituisce reato”.
Nel 2011 un
terzo filone dell’inchiesta, detto “Aldro-ter”, vedrà il dirigente
dell’Ufficio Volanti Paolo Marino condannato in primo grado ad altri 3
mesi di carcere per omessa denuncia aggravata in relazione alle prime
indagini. Non avrebbe denunciato i pasticci nei brogliacci compilati dal
responsabile della centrale operativa la mattina in cui morì Federico.
LA SENTENZA DI SECONDO GRADO
- Il 16 maggio 2011 alla Corte D’Appello di Bologna si apre il processo
di secondo grado per la morte di Federico Aldrovandi. La famiglia del
ragazzo rinuncia a costituirsi parte civile perché in cambio,
nell’ottobre 2010, il Ministero dell’Interno le ha risarcito quasi due
milioni di euro. Lo scorso 10 giugno la Corte D’Appello conferma la pena
a 3 anni e 6 mesi di reclusione per i quattro poliziotti: Paolo
Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. Nelle
motivazioni i giudici danno un ruolo rilevante alla droga assunta da
Federico Aldrovandi la sera prima della morte, che gli avrebbe provocato
uno stato di agitazione fuori dal normale, ma proprio questo elemento
diventa un aggravante per i quattro poliziotti: infatti, essendo
professionalmente preparati, avrebbero dovuto capire lo stato di
necessità del ragazzo e, di conseguenza, intervenire in modo diverso.
Usando le
parole dei giudici, gli agenti “avrebbero dovuto avere un approccio di
tipo psichiatrico-sanitario e non iniziare una manovra di arresto,
contenimento e immobilizzazione condotta con estrema violenza, con
modalità scorrette e lesive, quasi i quattro volessero punire Aldrovandi
per il comportamento aggressivo tenuto nel corso della prima
colluttazione con Pontani e Pollastri”. I quattro agenti vengono
ritenuti responsabili allo stesso modo perché, leggiamo sempre nelle
motivazioni, “ognuno di loro ha percosso o calciato il ragazzo, anche
dopo essere stato atterrato e ognuno di loro non ha richiesto l’invio di
personale medico prima, ma soltanto dopo averne vinto con violenza la
resistenza”.
LA CASSAZIONE -
Il 21 giugno 2012 la Corte di Cassazione conferma la condanna a 3 anni e
6 mesi di carcere per gli agenti di polizia Paolo Forlani, Monica
Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri.
Ora stanno tornando in servizio i quattro agenti che hanno ucciso suo figlio e lei, Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, non sa nemmeno il perché. I vertici della polizia hanno negato al suo avvocato l’accesso agli atti per conoscere le motivazioni dei provvedimenti disciplinari che hanno inflitto sei mesi di sospensione dal servizio per i quattro poliziotti pregiudicati. “Perché, ci hanno detto che ai sensi di legge non siamo ‘diretti interessati”. Dopo i sei mesi di detenzione e l’uguale periodo di sospensione due di loro – Monica Segatto e Luca Pollastri – sono già rientrati in servizio, scaduto il tempo dei mesi di sospensione decisi dalla disciplinare. Un terzo, Paolo Forlani, è stato reintegrato ma non tornerà per il momento in servizio, perché da tempo in cura per una “nevrosi reattiva”, dovuta “alle vicende del processo e a tutto quello che ha vissuto – come spiega il suo legale Gabriele Bordoni -, con grande dolore, anche per la morte del ragazzo”. Enzo Pontani dovrebbe ritornare in servizio a breve (per lui i tempi iniziano a decorrere un mese dopo rispetto ai colleghi per via del diverso iter giudiziario, ‘rallentato’ a causa di un difetto di notifica).
E la madre di Federico si sente “umiliata, mortificata”. Vuoi perché si sarebbe aspettata una chiamata da parte della Polizia o del ministero dell’Interno, vuoi perché “nonostante tutta questa lotta basata su un’esigenza di giustizia per cercare di cambiare il mondo, ti accorgi che le cose non cambiano.
Arrivano la manifestazioni di vicinanza e di solidarietà dei politici ma non cambia nulla”. Ultima in ordine di tempo fu la Cancellieri, allora al Viminale, a promettere “pene esemplari” contro “le mele marce” all’interno della polizia. “Si era in parte impegnata a seguire attentamente la vicenda, poi ha cambiato ministero. Il problema è che cambia politico e non c’è più modo di proseguire il dialogo e non hai più un interlocutore”.
Prima di lei lunga è stata la schiera di politici, ministri, Presidenti della Camera e sottosegretari che hanno ricevuto lei e suo marito Lino Aldrovandi. Da Bertinotti ad Amato, da Manconi a Manganelli. Alle parole però non seguirono i fatti. E nemmeno le parole sono arrivate in questi otto anni (Federico morì il 25 settembre del 2005) dai quattro agenti, che non hanno mai cercato di contattarla: “Mai, mai assolutamente”. Quanto al fatto che non sia possibile la destituzione dalla polizia per condanne per reati colposi, la madre di Federico ribadisce quanto lei e il padre, Lino Aldrovandi, hanno sempre sostenuto: “in tutte le sentenze che si sono succedute, in particolare la prima, hanno sancito che non è stato possibile arrivare ad una pena maggiore a causa degli insabbiamenti dei colleghi. Io ho letto il regolamento della polizia – rimarca -: la radiazione (destituzione, ndr) anche è prevista per il disonore alla divisa. E questo per me è alto tradimento. Basta leggerle le cose, basta volerle applicare, per me gli appigli ci sono. Ma forse non vogliono farlo”. “Qui non ci siamo solo noi – è la sua conclusione – ma è una questione che riguarda tutti, riguarda quello che decide di fare una istituzione di fronte ad una condanna per omicidio”.
Ora, a conti fatti, con il reintegro dei poliziotti, Moretti chiede “che almeno io non debba più vederli, che quelle persone non possano più salire sopra una volante”. Perché “anche loro, come Federico e per motivi opposti, sono diventati un simbolo. Il simbolo dell’impunità”.
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